Ahmad Joudeh

Ahmad

L’infanzia in un campo profughi vicino a Damasco, le minacce di morte, le bombe. E poi la danza, il profumo della libertà, il coraggio, la determinazione.

Questo è Ahmad Joudeh, siriano, classe 1990, oggi attivo a livello internazionale come ballerino, coreografo e messaggero di speranza. Un messaggio che porterà, attraverso la sua arte, anche sul palco del Teatro Comunale di Vicenza sabato 10 novembre, alle 18, assieme ai ragazzi del Villaggio Sos della città e di Ostuni, che ha accompagnato in una masterclass nei dieci giorni precedenti. 
Lo incontro proprio al Villaggio Sos di Vicenza. La nostra chiacchierata in inglese (ringrazio per l’aiuto nella traduzione Massimo Scacco, ndr) spazia dalla Siria ai Paesi Bassi all’Italia, dalle violenze degli estremisti all’energia della danza.

Ahmad, come ti descrivi dal punto di vista personale – professionale – spirituale?
A livello personale sono amichevole, molto legato alla mia famiglia, e caloroso. A livello professionale devo dire che il lavoro è mia priorità assoluta, ciò che viene prima di tutto nella mia vita, qualunque cosa accada. A livello spirituale, ho una mia fede, una personale connessione con l’universo. Sin da bambino avevo un’immaginazione molto fervida sull’universo, sull’energia e sulla vita, identificati dalla collanina che porto raffigurante una donna con le ali che, per me, ben rappresenta lo spirito con cui mi connetto. 
Immagino uno spirito entrare in me, fornirmi di ali e portarmi sul palcoscenico. Per questo prima di salire su un palco danzo sempre dietro le quinte, proprio per connettermi con l’universo.

Ahmad dancer

Credits ©Lidia Costantini

Chi o che cosa ti ha ispirato la passione per la danza?
Prendo ispirazione dalla natura, dalle voci, dai movimenti delle cose e delle persone. Credo che la persona che più mi ha ispirato la passione per la danza (e per la vita) sia stato mio nonno, di cui porto il nome. Mi ha insegnato che ogni cosa deve trovare e avere il suo equilibrio nella vita. Lui è il mio eroe, a differenza di mio padre, a cui non sono mai stato legato.



Danza e Siria. Binomio possibile / impossibile / difficile?
Danza e Siria binomio confuso. Da una parte mio padre si vergognava di me, in quanto ballerino, e mi picchiava. Dall’altra, quando lasciai il campo profughi in cui ero cresciuto ed entrai in una compagnia di ballo, lì mi sentivo rispettato. Quindi non capivo: quanto facevo era sbagliato o giusto? Quando diventai ballerino, i miei amici mi abbandonarono. Avevo amici solo nella compagnia di danza. Soffrivo per questo. E poi, quando la guerra iniziò, gli estremisti mi volevano tagliare la testa, solo perché danzavo. Da qui nasce il significato del mio tatuaggio dietro il collo: “Balla o muori”. Ho sempre lottato per essere me stesso, soprattutto in un contesto così complicato. È stato difficile, ma ne è valsa la pena.

Ora quanta Siria c’è in te?

Porto con me solo le cose positive della nostra cultura, come l’ospitalità, il calore e l’accoglienza dei siriani. Inoltre abbiamo un grande rispetto per le donne, anche se si va dicendo il contrario. Non mi porto dietro, invece, tutto ciò che c’è di negativo e ciò in cui non credo.

Palmira

Durante la guerra civile hai passato situazioni difficili, rischiose per la tua vita, solo perché hai fatto del ballo la tua professione. In quale hai avuto più paura?

In molte situazioni ho avuto paura. Una volta io e mio fratello eravamo in soggiorno. Una nostra finestra si affacciava su un altro palazzo. Improvvisamente abbiamo sentito un forte botto: un missile aveva colpito proprio la casa di fronte, distruggendola. E la cosa che più ci ha spaventati è stato il fatto che, se quella casa non fosse stata lì, il missile avrebbe colpito noi. 
Non solo. Ho avuto molta paura anche quella volta che avevo in programma lo spettacolo all’Opera House di Damasco, nella città vecchia. Arrivavo dal Yarmouk camp. Di solito passavo a prendere un mio amico prima di andare allo show. Lui era in ritardo, così mi ha fatto entrare in casa per prendere un caffè nell’attesa. Lì è iniziato tutto: prima una guerriglia leggera, poi l’arrivo di carri armati e di aerei. Tremava tutto. Siamo scesi nel rifugio sotterraneo per proteggerci e siamo rimasti bloccati lì, perché fuori c’era la guerra. Quella notte, io e il mio amico abbiamo dormito su tre scalini, perché nel rifugio c’erano le donne e noi non potevamo stare con loro. La mattina seguente, quando ho aperto la porta, un militare mi ha puntato la pistola in testa. Mi ha fatto alcune domande: cosa ci facevamo lì, chi c’era… Io sono rimasto tranquillo, ho cercato di parlargli nel modo più intelligente possibile. Non potendo vederlo in viso, perché era coperto, ho giocato sulle tradizioni arabe per farlo scoprire e vederlo. Ho risposto alle sue domande e, alla fine, mi ha suggerito di trovare una macchina per andare via. Così ho chiamato un amico e gli ho detto di venire a prenderci con la macchina più grande che aveva. Mi ha risposto che era spaventato e che non voleva. Per convincerlo gli ho detto che sarebbe stata colpa sua se avessimo perso la vita. È arrivato con un pulmino e siamo partiti. Coprivamo i bambini e dicevamo alle donne che erano con noi di chiudere gli occhi, perché la scena era agghiacciante: tutto distrutto, pezzi di persone ovunque. Quando siamo arrivati all’Opera House, abbiamo ballato e ci siamo sentiti meglio.
Tornati a casa eravamo distrutti. Ricordo che la madre del mio amico mi baciò le mani. Nella nostra tradizione si baciano le mani solo ai genitori, è un segno importantissimo. Ero stupito e non capivo, così le chiesi il perché di quel gesto. Mi disse che poco dopo che lasciammo la casa per andare all’Opera House, la struttura che fino ad allora ci aveva protetti era crollata. Rimasi parecchio sconvolto: tante sono le volte che mi sono trovato vicino alle bombe e ogni volta ne sono uscito illeso. È come se schivassi tutti i pezzi che arrivano dalle bombe grazie al ballo. Anche questa volta abbiamo lasciato la casa per andare a ballare.

Siria

E ora hai paura?

Ora è diverso. Ho ricevuto ancora minacce, sebbene sia in Europa, ma sono capace di rispondere a queste in un modo tutto mio, coreografando nuovi pezzi e danzando su canzoni arabe. Comunque non ho più paura, perché sto vivendo i miei sogni.

E poi c’è quel motto, “Danza o muori” (Dance or die), che tu hai tatuato dietro il collo, nel punto dove la lama del boia ti colpirebbe. Per te cosa si nasconde dietro questo slogan?

La prima volta che dissi “Danza o muori” fu con mio padre, non per la guerra. Avevo 17 anni quando mi disse, con violenza, che dovevo studiare piuttosto che ballare. Fu in quel momento che gli risposi “Dance or die”. È diventato il motto della mia vita. Sono sopravvissuto a tutto ciò che mi è accaduto perché sono un ballerino. Guardatemi: non ho documenti con me, non ho passaporto, ma sono qui perché sono un ballerino. La danza è vita per me.

Dance or Die

Dance or Die. Credits ©Ernst Coppejans

La tua danza nell’anfiteatro romano di Palmira, dove si sono svolte tante esecuzioni capitali da parte degli estremisti, a luglio 2016 può essere considerata un atto di ribellione? Se no, come la possiamo considerare?
Palmira è la mia cara casa e significa molto per me. Ho ballato nell’anfiteatro dopo aver ballato nel campo di Yarmouk. Mi hanno sparato contro più volte, ma ho continuato a ballare. Aver ballato a Palmira è stata la mia risposta alle esecuzioni, perché quello è un teatro dove ballare, non dove uccidere. Ho desiderato fortemente ballare lì: se proprio dovevo essere ucciso, allora volevo morire lì, lasciando un segno. Non volevo morire per nulla, volevo morire rappresentando la cultura e l’arte del mio Paese, ma nel giusto ambiente.

Ahmad Palmira

Dal 2016 la tua vita cambia. Dalla Siria arrivi in Europa, ad Amsterdam, nello specifico. Ci racconti questo cambiamento?

Non ho deciso io di partire, l’ha deciso mia madre: “Vattene da qui! Ti uccideranno se resti!”, mi disse. Per me è stato come camminare lungo una strada bendato: non sai dove sei e non sai dove stai andando. Non sapevo nulla dell’Europa, l’unica cosa che conoscevo era Roberto Bolle e l’unica cosa che sapevo era che volevo incontrarlo, solo incontrarlo… non mi sarei mai immaginato di arrivare a ballare con lui (a gennaio 2018 Ahmad si è esibito con Bolle durante “Danza con me”, spettacolo di Rai1 vincitore del premio miglior programma di intrattenimento a livello europeo dell’anno, ndr). 
Quando lasci il tuo Paese e diventi un immigrato, ti trasformi in un bambino: hai bisogno di cure, di essere seguito, di imparare la lingua. Inizi a essere indifeso, fragile e sensibile. Mi sentivo così solo. Durante i primi mesi ad Amsterdam ho perso quasi 8 chili, perché non riuscivo a mangiare. Come potevo mangiare sapendo che la mia famiglia era ancora in guerra?
Anche le cose che ora mi risultano semplici in quel momento erano impossibili! Non sapevo come usare la lavatrice, il microonde… Dovevo chiedere alla gente come fare e mi guardavano strano, ovviamente. Ho avuto uno shock culturale! Mi sentivo così fragile. La cosa peggiore è che la gente mi ha usato arrivando a portarmi vicino al suicidio: una volta mi sono trovato su un ponte pronto a gettarmi. Ma non l’ho fatto, perché quando ho guardato l’acqua ho visto il mio spirito guida e ho sentito mia madre dirmi: “Ok, se lo fai sarai a posto tu, ma io no!”. Così ho capito che avrei dovuto ricominciare. Ho riconsiderato me stesso da zero e ho iniziato a ricostruirmi come un europeo. Purtroppo, se sei un rifugiato, la gente ti sfrutta e ti tratta in modo diverso. Ho ancora le cicatrici che mi ricordano le pene che ho passato. Una sul polso, vicino alla scritta free (libero). La cosa più difficile era essere lontano dalla mia famiglia e saper di non poter parlare con loro dei miei problemi. Potevo solo raccontare le cose positive. Ho capito che lo status che stavo raggiungendo mi allontanava sempre più da loro: diventare famoso mi stava distruggendo. Per questo, ad un certo momento della mia vita, ho deciso di bloccare i media e non rilasciare più interviste. Non reggevo il fatto di essere troppo al centro dell’attenzione, anche perché mi faceva male! Una volta ero a una festa. Un ragazzo mi si avvicinò e disse: “Ah ti conosco! Sei il ballerino della Tv”, io gli risposi di sì. “Come si sta ad essere qui, felici e famosi, sapendo che tua madre è ancora in Siria e, anzi, potrebbe essere stata pure bombardata?” incalzò. Io lo guardai e l’unica cosa che gli dissi fu: “Per favore, può andarsene?”. Per essere famoso devi essere forte e devi imparare ad affrontare queste situazioni. Io sto imparando! Pensa che una volta è venuto a trovarmi il mio migliore amico dalla Siria e mi ha detto di trovarmi completamente cambiato: prima dicevo sì a tutto, qui ho imparato a dire di no! E in alcune situazioni è necessario saper dire di no!

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Credits ©Bobby Janssen

Completa:

– uno stile di danza che ti piacerebbe imparare: Tango argentino;
– la performance che ricordi con più emozione: la danza con Roberto Bolle;
– il contesto più difficile in cui ti sei esibito: Yarmouk camp, il più difficile emotivamente, perché la gente mi urlava contro. Il più complicato a livello tecnico, invece, è stato il teatro Verdi di Padova. In Italia i palchi sono inclinati, in modo da permettere una visuale migliore al pubblico, ma quel palcoscenico è tanto inclinato!
– dove vorresti esibirti? A Roma, vorrei ballare in uno dei teatri storici della capitale;

- di fronte a chi vorresti esibirti? Mia madre, mi manca.

Ahmad Joudeh e Roberto Bolle

Ahmad Joudeh e Roberto Bolle

Che cambiamento vorresti apportare nel mondo con le tue scelte?
Se buttassimo via i nostri passaporti e ci concentrassimo solo sul fatto di essere umani e non pezzi di carta, potremmo veramente vivere in pace. L’umanità è bella! Non devono esistere lotte perché una persona ha gli occhi blu e una marroni, invece vedo solo guerre perché una persona ha un passaporto piuttosto che un altro.

Per dirla alla Martin Luther King: «I have a dream». Qual è il tuo sogno?

Ora? Fondare un’Accademia di ballo in Siria. Questo è il mio sogno più grande.

Ahmad profilo

Credits ©Gabriele Pandolfi

Tra le tante tue attività, figurano le masterclass con bambini dei Villaggi SOS. Perché danzi anche con i piccoli? Cosa vuoi trasmettere loro?

Wow è una bella domanda! Perché i bambini sono il futuro! 
Diventare un ballerino mi ha aiutato molto per sopravvivere alla guerra. Saper stare su un palco, di fronte a migliaia di persone, ti aiuta ad avere una forte personalità e ti insegna a saper nascondere alcune emozioni. 
Per arrivare alla scuola di ballo in Siria dalla casa che avevo affittato (casa mia era stata bombardata) dovevo passare 12 stazioni di controllo e in ognuna dovevo provare perché non ero nell’esercito. Dovevo dimostrare che ero studente, mostrando il mio tesserino, e dovevo recitare, in modo che non si capisse cosa stavo provando dentro. Ho imparato a simulare e tenere dentro le emozioni. Ciò era necessario per non avere problemi. 
Volevo un futuro migliore, per questo motivo sono andato in molte associazioni a cercare di dare aiuto. Sono finito al Villaggio SOS. All’inizio non mi volevano, il direttore mi chiese cosa ci facevo lì e soprattutto che senso aveva proporre un corso di ballo in periodo di guerra. Volevo solo provare ad aiutare i bimbi. Così mi concesse di provare. Avevano radunato tutti i bambini del villaggio. Erano tantissimi! Come potevo da solo fare un corso a tutti contemporaneamente? Così proposi ai miei colleghi di ballo di aiutarmi ad insegnare danza a questi piccoli.
Avevo uno studente speciale che se prima non parlava, ora mi aiutava ad insegnare agli altri bambini e dialogava con tutti. Pensa che quando abbiamo portato la videocamera nel villaggio, ha voluto fare l’intervista. Un bel cambiamento! E questo grazie alla danza. Sono ancora in contatto con lui, quando ho tempo lo chiamo e parliamo molto. 
I bambini sono stati dunque un modo per aiutare e dare il mio contributo! Penso sarei stato felicissimo se qualcuno fosse venuto al campo rifugiati ad insegnarmi a ballare quando ero piccolo! Quindi sono contento di essere diventato io questa persona! È incredibile vedere come, attraverso la danza, i bambini inizino a interagire tra loro, imparino ad essere forti e presentarsi davanti a molta gente, a non essere timidi e tirare fuori il coraggio.

ahmad-sos

Ahmad al Villaggio SOS di Vicenza

Ahmad, ora a chi ti senti di dire grazie per essere quello che sei?
Vorrei dire grazie a Ted Brandsen, l’attuale direttore dell’Het Nationale Ballet (la compagnia di ballo ufficiale e la più grande dei Paesi Bassi), perché quando ero ancora in Siria mi chiamò e mi disse: “ti aiuterò”. E così fece: mi aiutò ad arrivare in Europa.

het nationale ballet

Hai la possibilità di inviare un biglietto alla tua Siria. Cosa scrivi?

È difficile rispondere! Penso che se dovessi scrivere una lettera, chiederei semplicemente di ricordare come vivevamo insieme prima di 6 anni fa. Perché penso che ormai i siriani abbiano dimenticato come erano ospitali e amichevoli prima. Non si sono mai interessati a religione e nazionalità. Quindi manderei una lettera semplicemente dicendo di guardare indietro.

Dove e come ti immagini tra 10 anni?

Fantastico spesso su come sarò da vecchio e mi immagino seduto all’Opera House a guardare le prove generali del Syria National Ballet, compagnia che avrò fondato. Nel futuro imminente, invece, mi vedo vivere in Italia, forse a Roma.

danza o muori

Nel tuo speech al TEDx di Vicenza parli spesso di freedom, di libertà. Cos’è per te la libertà? Ti senti libero?

La libertà ha molte sfaccettature. Per me libertà è essere me stesso ed essere orgoglioso di me stesso in tutte le fasi della vita. La maggiore espressione di libertà è essere capaci di scegliere quello che si vuole. Ma se scegli, devi essere responsabile. Ora sto cercando di essere libero, sebbene ci siano delle difficoltà, perché non ho ancora i documenti e non mi è permesso andare a Londra o in America, dove ci sono molte opportunità. È brutto, perché il mio desiderio è di andare in questi Paesi come artista, non come rifugiato, per condividere l’arte, non idee politiche o terrorismo. Sono comunque felice di essere in Europa, perché sto raggiungendo tutti i miei sogni e obbiettivi.

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